Differenze tra le versioni di "Filosofia Indiana"

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Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza.
 
Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza.

Versione attuale delle 17:11, 13 dic 2021

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Fin dal primo inizio, 4000 anni prima di Cristo, le speculazioni dei saggi indiani erano rivolte alla risoluzione dei problemi fondamentali della vita. La loro filosofia nasce dai loro tentativi di rendere migliore la vita. Dalla vita pratica veniva l'esperienza delle forme di dolore e sofferenza più comuni - malattia, povertà, fame, morte. Agiva poi l'innata curiosità umana di comprensione e conoscenza. La comprensione e la conoscenza, frutto della curiosità speculativa, furono utilizzate nel tentativo di sconfiggere la sofferenza.

In che modo?

La risposta dell'India fu quella di mettere in primo piano il controllo dei desideri. Ne risulta che i filosofi indiani tendono ad insistere sull'auto-disciplina e sull'auto-controllo come pre-requisiti per raggiungere una vita felice. Questo bisogno di regolare e controllare i desideri è di fondamentale importanza alla conoscenza di sé. La stessa parola che indica la filosofia, è il termine darshana, che in realtà significa visione, nel senso di ciò che si riesce a vedere dopo che si è indagata la realtà suprema. Naturalmente è possibile che una visione contenga degli errori e le cose possono non essere viste come sono in effetti. Di conseguenza, il filosofo deve giustificare la sua visione fornendo le prove della sua veridicità. Ebbene, i filosofi indiani hanno sempre insistito che la pratica è la vera prova della verità. Le visioni filosofiche devono essere messe in pratica e la vita deve essere vissuta, non solo indagata o teorizzata.

La visione che rende possibile una vita libera dalla sofferenza, è giustamente chiamata una vera filosofia. Per cui non ha senso, nel pensiero indiano, dire ad es. "buona in teoria, ma non in pratica". Buona in teoria, significa, necessariamente, per il pensiero indiano, anche buona in pratica e se una teoria non può essere messa in pratica in essa c'è qualcosa di sbagliato. Filosofia e religione non sono considerate due attività separate. L'insistenza indiana sulla pratica come banco di prova della verità filosofica ebbe anche un altro effetto, quello di porre l'accento sull'approccio introspettivo e meditativo e quindi, per vincere la sofferenza il filosofo indiano doveva guardare dentro se stesso, nella propria vita, e valutare ciò che vi andava accadendo. Era necessario osservarne i cambiamenti e darne una valutazione affinché l'individuo potesse proseguire nella propria auto-analisi e ricerca interiore. Nel pensiero filosofico indiano c'è anche un consenso piuttosto esteso nei riguardi del non-attaccamento. La sofferenza proviene dall'attaccarsi a ciò che non si ha o anche a ciò che non si può avere, ma anche a ciò che si ha. Così il non-attaccamento è riconosciuto come il mezzo essenziale per la realizzazione della vita felice.

Nell'Induismo l'intuizione fondamentale è che la realtà è Una. Il mondo, l'uomo, gli dèi, le cose che sono state, sono e saranno, tutto questo è l'unica e medesima Realtà: "Tutto è Brahman" (Chandogya Upanisad). E quando la persona ha raggiunto una conoscenza illuminata, anche lei può dire: "Io sono Brahman" (Brhadaranyaka Upanisad). Il Brahman è l'"Uno, senza secondo" (Chandogya Upanisad).

L'Io profondo dell'uomo, l'Atman, è anch'esso identico al Brahman. “Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso", Chandogya Upanisad. E per quanto riguarda l'uomo, l'Induismo ripete da secoli la frase di Uddalaka a suo figlio Svetaketu: "Tu sei Quello", Tat tvam asi, Chandogya Upanisad. Viene così riconosciuto che il Brahman-Atman è l'unico Assoluto, la radice e il fondamento di tutto, il Signore che regge e sostiene ogni cosa, la guida interiore, il Guru e il fine di ogni essere vivente. In questo senso, il mondo non è creato e non ha consistenza in se stesso. Sia che esso venga concepito come Maya, illusione o che venga piuttosto descritto come un gioco Divino, lila, esso è l'eterna manifestazione dell'eterno esistente, il volto dell'Eterna Persona, la dimora mutevole del Permanente. Quando si parla di inizio o di fine, di creazione e di distruzione, le parole si riferiscono ai processi ciclici di apparizione e di sparizione delle cose, di uscita e di rientro delle stesse nella loro eterna Origine.

Tutto ciò che appare è lo stesso Brahman, che si manifesta attraverso ogni cosa. Egli è la Realtà vera di ogni manifestazione. Solo se si considera un fenomeno a sé stante, si può parlare di inizio e di fine, di nascita e di morte; ma il fenomeno stesso è sempre stato in seno al Brahman, e sarà in lui eternamente custodito. Allora l'uomo non muore con la sua morte fisica?

Non solo l'uomo non muore, ma in realtà egli non è mai nato, questa è la risposta che Krsna dà ad Arjuna nella Bhagavad Gita dicendo: "Non ci fu mai un tempo in cui non ero, io, tu, e questi prìncipi tutti, né ci sarà mai un tempo in cui non saremo, noi tutti, dopo questa esistenza. A quel modo che in questo corpo il sé incorporato passa attraverso l'infanzia, la giovinezza e la vecchiaia, così, alla morte, egli assume un altro corpo. Il forte, non è su ciò mai perplesso" (2,13-14).

In altre parole, l'Io profondo di ogni uomo, la verità della sua persona, è l'Atman, ed esso è identico al Brahman.

"Egli non nasce e non muore mai, né, essendo stato, v'è tempo in cui non sarà ancora. Innato, eterno, permanente, antico, egli non muore, quando muore il corpo…A quel modo che un uomo abbandona i suoi vecchi vestimenti e ne prende di nuovi, così il suo sé abitante nel corpo abbandona i suoi vecchi corpi e ne prende di nuovi" (Bhagavad Gita, 2, 21-23).

Com'è possibile che un uomo assuma diversi corpi? Per rispondere dobbiamo ricordare che l'induista è un uomo di fede e perciò dà fiducia a quello che i Rsi, i saggi ispirati che hanno veduto gli inni vedici e conoscono la verità, gli hanno tramandato. In base a questo, il singolo uomo che viene al mondo, era in cammino fin dall'eternità. Egli è sempre stato e sempre sarà. E come egli è emerso dal seno del Brahman, così si riunirà con la Grazia della Liberazione, Moksha o Mukti, che lo riporterà di nuovo in seno al Brahman.

Come poi questo avvenga, che cosa significhi assumere diversi corpi, e come sia possibile per l'uomo conservare la propria identità attraverso tutto questo, è una risposta che richiede una conoscenza che non necessariamente coincide con quella che l'uomo ha ora, ovvero razionale e logica. E qui l'Induismo da interrogato diventa interrogante e chiede: "tu che non ti ricordi neppure che cos'eri durante la tua infanzia, che non sai nulla di quello che eri nel seno di tua madre, che cosa puoi sapere di quello che eri prima di essere concepito, e di quello che sei in seno al Divino?". Gettato nel mondo, l'uomo rimane in balia del ciclo delle nascite e delle rinascite, samsara. L'uomo non potrà uscire dal samsara finché non attingerà l'Assoluto, l’unione con Brahman. Questo è il problema della Liberazione. Per l'Induismo si tratta allora non di fuggire dal mondo quanto piuttosto di rientrare in seno al Brahman, al Divino. Ciò che lega l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite è il karma, azione. L'uomo è normalmente spinto all'azione dal desiderio, kama, dei suoi frutti, dei suoi esiti. Ora, il desiderio dell'uomo nasce dal contatto con la realtà del mondo e rimane chiuso entro i suoi confini. Per cui l'azione umana piuttosto che essere un fattore di liberazione, è la causa che vincola l'uomo al ciclo delle nascite e rinascite. Anche se l'uomo osservasse perfettamente tutta la Legge Dharma, potrà ottenere una rinascita nobile, ma mai la liberazione. La Bhagavad Gita dice chiaramente che l'uomo non può essere liberato grazie alle azioni compiute secondo la Legge, mentre la liberazione è il perfetto congiungimento con l'Origine ultima di tutte le cose. Questo presuppone che si faccia pieno spazio alla sua presenza e alla sua azione. Essa è opera del supremo Signore; a Lui l'uomo deve affidarsi. Krsna dirà ad Arjuna: "Abbandonando tutte le idee di Dharma, prendi rifugio in me soltanto. Io ti libererò da ogni peccato. Non ti addolorare" (Bhagavad Gita, 18,66).

Ma allora il Divino è per l'Induismo personale o impersonale?

Il Brahman-Atman delle Upanisad è un Assoluto impersonale, mentre la Bhagavad Gita introduce una concezione personale di Divinità. Egli è la Persona suprema, che salva il suo devoto. Tale concezione è fondamentale per capire il tipo di Yoga che la Bhagavad Gita presenta come strumento di liberazione.

Yoga significa anzitutto unione e, in riferimento al diverso modo di concepire il termine di questa unione ed i metodi per realizzarla, si danno diversi tipi di Yoga. Lo Yoga classico comprende un insieme di tecniche che mirano al completo possesso di sé. La Gita accetta le tecniche dello Yoga, ma sostiene che, dopo tutti gli sforzi umani, è comunque il Divino che viene incontro al suo devoto, ed in questo incontro si realizza la liberazione. Vi è una triplice via per la liberazione chiamata trimarga: l'azione, karma yoga, la conoscenza, jnana yoga e la devozione, bhakti yoga.

La via dell'azione è la via di colui che, sapendo che è l'energia Divina che agisce in ogni cosa, affida a Lui ogni sua azione e la compie senza attaccamento ai frutti; la via della conoscenza non è la conoscenza che tutto è Brahman, ma è piuttosto la Grazia di una Rivelazione, manifestazione della Forma suprema di Krsna; la via della devozione è la vera e propria essenza dell'Induismo, quella che permette di raggiungere la liberazione, ed è opera solo del Signore stesso. "Non per I Veda, per i sacrifici e gli studi, non per le elemosine, non per i riti, non per le dure penitenze, posso Io esser visto in tale forma qui nel mondo degli uomini: a te soltanto Io l'ho rivelata, o campione dei Kuru…ma per la devozione diretta a Me solo, o Arjuna: per essa io posso essere così conosciuto, veduto secondo realtà e penetrato, o Arjuna. Colui le cui azioni sono fatte per Me, il cui supremo bene son Io, colui che è a Me devoto, privo di attaccamento, privo di odio verso i vari esseri, costui entra in Me, Arjuna" (Bhagavad Gita, 11, 53,59-60).

Sri Yogi Pranidhana